Intervistata : Buongiorno a tutti. Oggi continuiamo ad affrontare il tema della discriminazione di genere, cercando di capire i vantaggi dell’inclusione. Cogliamo l’occasione per salutare Catia e il gruppo Quotidianamente.
Intervistartice: Nella precedente diretta, abbiamo parlato di discriminazione di genere sul lavoro. In Italia qual è la situazione?
La questione della condizione delle donne nel mercato del lavoro è riassumibile nella constatazione del permanere di un forte divario fra i sessi, in Italia (e altrove), nonostante i timidi segnali verso il suo ridimensionamento. Il Global Gender Gap Report del World Economic Forum e il Rapporto Istat su ‘Come cambia la vita delle donne’ confermano la situazione di svantaggio delle italiane nel percorso verso la parità e le pari opportunità, specie in campo economico. La situazione italiana non è rosea: su 149 Paesi, l’Italia occupa la settantesima posizione.
Intervistatrice: Io penso che in Italia qualcosa si stia smuovendo, non credi?
Assolutamente sì. Basta vedere la Legge Golfo-Mosca del 2011. Nel 2010 le donne rappresentavano solo il 6 per cento dei componenti dei consigli di amministrazione delle società quotate, uno dei tre peggiori dati di tutti i Paesi membri dell’Unione Europea.
Nel 2018, grazie alla legge, la percentuale è aumentata al 33,5 per cento con punte di periodo al 37 per cento.
È questa la prima normativa italiana volta a introdurre le pari opportunità in ambito societario.
Intervistatrice: Quali sono le logiche del mercato, oggi?
Secondo le logiche di mercato, una donna in un’azienda ci deve stare solo se vi porta un beneficio economico. Questo dovrebbe valere per ogni dipendente, ma per merito delle sue capacità, e non del suo genere. Un’azienda (o una nazione) guidata da una donna non è necessariamente migliore di quella guidata da un uomo, soprattutto se si scende la gerarchia lavorativa e si guarda quali sono le condizioni di tutte le donne lavoratrici.
Intervistatrice: Qual è la contropartita del mettere in luce il ruolo delle donne di potere?
Secondo Jennifer Guerra solo il 49,3% delle donne tra i 15 e i 65 anni lavora o ci si dimentica dei ben più reali problemi che tutte le donne, e non solo le top manager, devono affrontare se decidono di avere un figlio.
Non è un mistero che il mondo del lavoro, soprattutto ai vertici, sia dominato dai maschi, ma questo non significa che una giovane donna abbia il diritto di strumentalizzare il femminismo per rivendicare una qualche pretesa sul sistema o, ancora peggio, che un’azienda lo trasformi in una skill per attirare candidati donna e migliorare la performance aziendale.
Il femminismo aziendale è forse l’espressione più distruttiva dell’emancipazione femminile, perché dietro parole di empowerment si cela la perpetrazione di quello stesso sistema che umilia ed esclude la maggior parte delle donne.
Intervistatrice: Cosa si intende per azienda “femminista”?
Il termine “femminista” ha spesso una connotazione negativa, specie alle orecchie degli uomini. Eppure sono tante le donne che, oggi, hanno sentito l’urgenza di prendere consapevolezza del fenomeno ed esporsi di più.
Oggi, secondo Daniela Poggio, femminismo vuol dire impegnarsi attivamente per una società in cui uomini e donne abbiano pari diritti, ma partendo dal riconoscimento che la disuguaglianza di genere esiste.
Sandra Mori, Presidente di Valore D, associazione che ha come obiettivo l’equilibrio di genere e una cultura inclusiva nelle organizzazioni e nel nostro Paese, sottolinea che oggi “è più che mai necessaria una reale evoluzione culturale della nostra società nel senso dell’uguaglianza di genere, che non può essere solo una conquista legale, ma prima di tutto culturale. Per fare questo le donne che hanno conquistato posizioni di potere devono aiutare le altre donne ad emergere.
Intervistatrice: Secondo te, essere inclusivi può essere un fattore innovativo?
Non solo. L’inclusione crea anche più efficienza. Una recente ricerca evidenza lo stile di leadership inclusiva quale qualità tipicamente femminile e quale dote preziosa per il successo delle imprese. Da qui la tesi (e l’esigenza sul piano culturale, morale ed economico, oltre che giuridico) di individuare opportune pratiche in un’ottica di azioni positive per le donne.
Intervistatrice: Secondo te, qual è il ruolo delle istituzioni riguardo a questo tema?
Nel percorso verso un’economia della conoscenza che valorizzi il cosiddetto capitale umano, l’Università rappresenta un luogo privilegiato da cui partire per promuovere e diffondere una cultura delle pari opportunità che incida anche sulla consapevolezza e percezione della condizione di svantaggio femminile nel mondo del lavoro e dell’esposizione al rischio di discriminazioni di genere.
Nelle aule universitarie del nostro Paese, da diversi decenni, sta avvenendo una ‘rivoluzione silenziosa’ costituita da un aumento della scolarità femminile e dai risultati molto positivi, in quantità e qualità, delle studentesse nei percorsi universitari, che hanno sorpassato i coetanei maschi, ribaltando così la condizione di svantaggio di genere.
Intervistatrice: Ringraziamo tutti per averci seguito e cogliamo l’occasione per salutare nuovamente Catia e il gruppo quotidianamente, alla prossima puntata.
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